"Miss Violence" di Alexandros Avranas (recensione)















In un appartamento normale,[1] una famiglia apparentemente normale festeggia il compleanno della piccola undicenne Angeliki. All’improvviso la ragazzina apre la finestra e, guardando in macchina, accennando un sorriso, si butta nel vuoto. La camera dall’alto inquadra il corpo riverso nel cortile. Il resto del film è occupato a delucidare le cause di quel suicidio, a scoprire cosa si nasconda dietro la normalità di quella famiglia. La famiglia è composta da due genitori/nonni, da Eleni, la loro figlia adulta (che sembra perennemente in stato confusionale e che è madre single di due figli piccoli, Alkmini e Philippos) e da altre due figlie adolescenti, Myrto e Angeliki (che è la piccola suicida). Come in una tragedia greca che si rispetti, la verità si rivela poco a poco: il padre /nonno ha una relazione incestuosa con la figlia Eleni e probabilmente è il vero padre dei due figli di lei. Egli per di più, oltre ad abusare delle figlie e della nipote, governa un giro di prostituzione che coinvolge dapprima Eleni, poi la quattordicenne Myrto, fino alla piccola Alkmini. Vende a terzi le loro prestazioni sessuali, per raggranellare quattrini e permettere alla famiglia un discreto tenore di vita, realizzando così una sorta di economia domestica fondata sull’incesto, l’abuso e la violenza. La moglie/nonna sa tutto e copre la situazione, fino a quando, nelle ultime battute del film, dopo l’episodio della prostituzione e della violenza nei confronti della piccola Alkmini, usando un coltello domestico accuratamente pulito e lucidato, non provvede a uccidere il carnefice. Ma, e qui sta il vero coup de theatre, lo fa soltanto per prendere il suo posto. Il carnefice è stato giustiziato ma la porta dell’appartamento si rinchiude nuovamente sui sopravvissuti e il giustiziere diventa il nuovo oppressore. Da quella casa si esce soltanto volando dalla finestra, come la piccola Angeliki.

Questa è la trama sintetica di «Miss Violence» di Alexandros Avranas, vincitore a Venezia del Leone d’argento e della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile (a Themis Panou per la parte del nonno / padre). Sul piano narrativo nel resto del film accade ben poco d’altro. Forse le uniche cose che accadono davvero sono il suicidio iniziale e l’omicidio finale. Quel che poi viene mostrato in aggiunta è la progressiva delucidazione della realtà che si trova dietro le quinte, una realtà fatta di ripetizione e di quotidianità, per quanto raccapricciante in tutti i suoi dettagli. Il film non si limita tuttavia a mettere in scena un efferato fatto di cronaca e i suoi antecedenti. L’orrore della tragedia, peraltro quasi mai mostrato esplicitamente e direttamente, serve come potente metafora per indagare la doppiezza della vita familiare e più in generale della vita sociale, come modello esplicativo generale del funzionamento dei rapporti di potere. Non solo uno schiaffo al perbenismo, ma una vera e propria teoria sociologica, una specie di nichilismo anatomico quello di Avranas, attraverso cui viene proposta una lettura spietata della nostra vita sociale. Si tratta di un film rigoroso sul piano estetico, maniacale, implacabile e terribilmente consapevole sul piano teorico. Si possono non condividere fino in fondo le tesi dell’autore, ma è impossibile evitare di confrontarsi con esse.

Il film si svolge quasi interamente nel chiuso claustrofobico di un appartamento di cui non riusciamo mai ad avere una mappa compiuta. Grazie anche alle riprese ravvicinate, l’appartamento appare come un labirinto, come un meandro di corridoi pieni di porte che si aprono e chiudono continuamente. Lì dentro avvengono i giochi sottili che hanno per posta il controllo e l’uso delle anime e dei corpi. La telecamera indugia continuamente per spiare quel che avviene all’interno. Dei misteri della vita quotidiana di quella famiglia possiamo avere solo degli stralci attraverso porte socchiuse. Non a caso il film terminerà con una porta chiusa. Per rendere l’ordine apparente e forzato della casa, Avranas fa poi anche un sistematico uso di inquadrature fisse, con attori che entrano ed escono, con avvenimenti o che accadono fuori quadro, e che possono essere ricostruiti sulla base del sonoro o sulla base di vedute parziali. Questo permette di lasciare molto spazio al non detto, alla ricostruzione e all’immaginazione dello spettatore. Permette allo spettatore di fare delle continue verifiche delle proprie supposizioni, mano a mano che la macchina da presa esplora quel piccolo mondo claustrofobico. Tra l’ordine apparente e i dettagli sempre più strani, la camera di Avranas si muove con un andamento euristico, continua a raccogliere indizi, mostra incongruenze, lascia in sospeso le risposte, offre gli spunti per avanzare teorie interpretative che via via risultano sempre più sconvolgenti.

Uno dei pregi maggiori del film, per almeno i 2/3 della sua durata, è proprio quello di rappresentare, lucidamente e ossessivamente, una normalità che ha tutte le sembianze di un’autentica normalità ma che vien costantemente smentita da dettagli, indizi, incoerenze, ambiguità che rinviano continuamente a qualcos’altro, che fanno presagire che le cose siano diverse da come appaiono. In proposito va ricordata la magistrale lunga sequenza del sopraluogo nell’appartamento da parte degli ispettori dell’assistenza sociale. La normalità apparente viene recitata nel composto dolore per la scomparsa di Angeliki, nel ruolo di guida responsabile che il nonno/padre si assume in un momento così difficile, nell’espletamento delle pratiche, nel contatto con gli assistenti sociali, nel tentativo amorevole di aiutare i bambini più piccoli a superare il trauma e a riprendere la vita normale. Poco a poco però le incrinature sia fanno via via più numerose, si accumulano e così si rivelano chiavi di lettura sempre più imbarazzanti, sempre più raccapriccianti. Rifiutando le numerose dissonanze, dapprima lo spettatore è indotto a negare, a mettere da parte certi dettagli, ma poi è costretto poco a poco a costruire un tutt’altro quadro e a scoprire che dietro la casa della normalità si nasconde una casa degli orrori. È un film che mette magnificamente all’opera la logica abduttiva e il metodo indiziario, nel contesto di fondo di una radicale filosofia del sospetto.

Avranas mostra, con il progredire della sua trama, quel che già aveva scoperto la Arendt a Gerusalemme e cioè che l’orrore più orrendo è quello che veste i panni della normalità, che il sistema oppressivo più ripugnante è quello che si costruisce con gli ingredienti dei piccoli gesti della vita quotidiana, con le parole persuasive, con l’accudimento, con la distribuzione di gelati e pasticcini, con la promessa di andare al mare, con il bacio della buona notte. Ci si accorge così che la normalità e l’orrore sono talmente intrecciati da risultare indisgiungibili, reciprocamente funzionali. Il nonno /padre non è affetto da disturbo bipolare, non è alternativamente il dottor Jeckyll e mister Hyde, rappresenta piuttosto la perfetta e inaudita fusione degli opposti, è un amorevole padre di famiglia che violenta, stupra e prostituisce, ma lo fa con dedizione, con senso del dovere, con umiltà, avendo cura delle proprie vittime, per il loro bene, per la salvaguardia e la continuazione della famiglia stessa. Nella casa non convivono due ordini opposti, ma un unico ordine, totalizzante, quasi armonico nella sua follia. Solo il suicidio di Angeliki ha turbato l’armonia e gli equilibri raggiunti con tanta fatica e sacrificio.

Che il film di Avranas non intenda rappresentare semplicemente un fatto di cronaca, un caso anomalo, come quelli che sono recentemente comparsi sui giornali, ma che intenda fare un discorso ben più ampio, lo si comprende dal fatto che tutte le articolazioni della società con cui i protagonisti vengono a contatto, dai funzionari dell’assistenza ai datori di lavoro, fino ai clienti delle pratiche prostitutive, presentano anch’essi gli stessi tratti patologici. La stessa impersonalità, la stessa ottusità, la stessa fredda e agghiacciante meccanica relazionale, la stessa dedizione a far bene le cose, a ricoprire puntigliosamente i propri ruoli, producendo più o meno consapevolmente, come risultato, un sistema complessivo dell’orrore. Abbiamo parlato in apertura di nichilismo anatomico. Spesso gli attori indugiano in una fissità estraniata, le scene sono composte con una fotografia fredda che ha come risultato il fatto di rendere i personaggi iperreali, più tipi ideali che esseri in carne e ossa. Il grande impatto del film sullo spettatore non è giocato attraverso l’identificazione emotiva con i personaggi, bensì attraverso la ricostruzione cognitiva, che è resa poco a poco possibile, dell’universo concentrazionario della famiglia di Angeliki. Proprio grazie a questa ricostruzione cognitiva gli eventi del film si prestano a costituire una metafora di tutti i sistemi di oppressione dove questa si maschera della normalità e dove le vittime sono di fatto complici e dove il tutto viene avallato dai testimoni che sanno tutto, o che potrebbero sapere tutto, ma che si volgono sempre dall’altra parte e, all’occasione, sfruttano la situazione per il proprio tornaconto.

Il film di Avranas si presta così a molteplici piani di lettura, a molteplici e complesse interpretazioni. Quella letterale, della riproduzione del caso di cronaca è solo la più banale. Qualcuno ha voluto vedervi anche una metafora della Grecia odierna, pressata dalla crisi economica, costretta in un certo senso a divorare il futuro dei propri giovani per sopravvivere. Quel che è certo è che il richiamo all’attualità greca, se c’è, è molto indiretto. Ci sono invero pochi appigli. Il film sembra piuttosto una metafora universalistica dei rapporti di potere nella famiglia e nella società che s’instaurano attraverso la manipolazione dei corpi e delle menti. Un discorso molto generale sull’ordine sociale, dunque, che risente forse di echi prettamente foucaultiani. Una tesi sopita, ma neanche troppo, che certo è presente nel film (non si sa quanto consapevolmente), è che qualunque forma di educazione equivalga moralmente a uno stupro. E non si tratta solo di stupro maschile, visto il finale, dove vediamo la nonna prendere immediatamente il posto del nonno nell’amministrazione della casa degli orrori. È una tesi decisamente anarchica, una tesi che non distingue minimamente tra il potere esercitato direttamente sui corpi e la legittima trasmissione culturale esercitata sulle anime. Sempre di violenza si tratta, perché c’è sempre di mezzo il potere.

Violenza è la violenza televisiva (nell’appartamento c’è una televisione spesso accesa che trasmette documentari naturalistici dove si mostra una comunità di scimmie), la violenza della macchina fotografica, che impone di irrigidirsi, di mettersi in posa per lo scatto (nel film abbondano episodi in cui la famigliola s’immortala attraverso inquadrature fotografiche), la violenza della danza vagamente sexy della bambina più piccola, appresa probabilmente dalla televisione, fino alla violenza dell’immagine pornografica (cui si ispira la scena della prestazione prostitutiva della giovane Myrto). Violento è il denaro che compera le cose, il cibo, il gelato e i pasticcini ma che è anche il primo mediatore dei rapporti di potere tra le persone e della mercificazione dei loro corpi. Violente sono le pratiche punitive (la sorellina costretta a schiaffeggiare il fratello) ma moralmente violente sono anche le cure, le attenzioni, i regali, le promesse. Violento è anche l’altruismo (il nonno accetta di perdere il posto di lavoro per poter andare a scuola a ritirare la pagella del piccolo Filippos) oppure l’assistenza amorevole ai bambini quando fanno i compiti. Violenta soprattutto è poi la passività, l’accondiscendenza: Eleni, la figlia /madre impasticcata, priva di una sua volontà, si presta a tutte le recite, a tutti gli infingimenti, è una persona completamente svuotata, il perfetto risultato della pedagogia del potere e della violenza.

Anche la nonna è accondiscendente. Lascia trasparire qualche segno di disagio, sicuramente è anch’essa sottoposta a ricatto della violenza, lo si coglie dai numerosi lividi, ma all’occorrenza sa perfettamente da che parte stare. È colei che ha sopportato di più la situazione della figlia e dei nipoti, è colei che è la testimone depositaria di tutta la storia familiare. Certo, alla fine è lei a uccidere il carnefice, ma per prenderne subito il posto. Con questo fulmineo rovescio narrativo Avranas trasmette allo spettatore la sua verità più dura, il pugno nello stomaco definitivo: assistere alle violenze morali e materiali senza far nulla non lascia la nostra coscienza inalterata, bensì ci trasforma inesorabilmente, ci rende del tutto simili a coloro che perpetrano le violenze, alimenta il potenziale mostro che si trova dentro ciascuno di noi. Non è possibile alcuna neutralità, la violenza penetra dentro e alla fine non si può che diventare violenti.

Si affaccia così una terribile filosofia della società e della storia. Il potere e la sopraffazione si trasmettono di generazione in generazione attraverso il controllo violento dei corpi e delle anime. In questo senso Avranas sembra suggerire che lo stupro c’è sempre, sia esso effettivo o soltanto simbolico. In fondo quel che il regista ci propone non è altro che una versione del complesso di Edipo semplicemente rovesciata: qui non sono i figli che immaginano rapporti sessuali con il genitore, ma è il genitore che pratica effettivamente rapporti sessuali con i figli. Nella casa di Avranas, metafora della società intera, l’esser violentati dai padri padroni delle generazioni precedenti pare essere la sola condizione consuetudinaria per poter diventare poi, a propria volta, adulti e violentatori perfettamente bene adattati.

Così si spiega anche l’assoluta assenza di qualsiasi dilemma morale, di qualsiasi discorso morale tra i protagonisti. L’assenza cioè di qualsiasi forma autentica di responsabilità. Anche i funzionari (la preside, gli assistenti sociali, gli impiegati degli sportelli) fanno solo sempre il loro dovere, non ritengono di avere responsabilità morali, anche loro sono stati amorevolmente «educati». Solo in un passaggio del film Myrto, la figlia più grande, prova a parlare con la madre/nonna dell’autentica situazione della famiglia e prova a metterla di fronte alle sue responsabilità. Ma la nonna non ci sente. In un universo dove tutti sono costretti, sono premuti, dove si devono rispettare le regole, non c’è spazio per l’autonomia morale. L’uccisione finale dell’aguzzino da parte della nonna è solo un’uccisione psicoanalitica del padre padrone: una volta ucciso non resta che prenderne il posto e imitarlo fino in fondo. Angeliki, l’unico personaggio positivo, può realizzarsi sul piano morale soltanto sottraendosi, rinunciando a quel mondo malato, al nostro mondo malato, saltando nel vuoto con l’accenno di un sorriso.

 Giuseppe Rinaldi

7/12/2013

 

NOTE

[1] Poiché racconterò il finale, chi non volesse conoscerlo in anticipo non ha che da sospendere la lettura e continuarla dopo aver visto il film.
 

 

 

Apertura della stagione 2013-2014


 

Il Circolo del cinema “Adelio Ferrero” nasce ad Alessandria e si costituisce ufficialmente nell’ottobre del 2013. Esso nasce come un’esigenza irreprimibile dei suoi fondatori e con il preciso intento di riportare il cinema di qualità e il dibattito culturale nella città di Adelio Ferrero. I fondatori sono Roberto Lasagna (presidente), Alberto Ballerino (vice presidente), Beppe Rinaldi (segretario), Marco Capriata (tesoriere), Enzo Macrì, Saverio Zumbo, Fabrizio Amerelli, Emira Gandini, Antonella Ferraris, Mathias Balbi, Davide D’Alto e Fausto Montanari. Il cinema è per noi la forma di espressione della modernità, un’incantevole arte che permette la più ampia riflessione sul presente e sugli aspetti della scena contemporanea. Oggi si va meno al cinema, ma sarebbe importante che ci accorgessimo dello sbaglio, per ridare l’opportuno valore al cinema, che nasce per i più e permette un’esperienza al contempo unica e condivisa. Il cinema è spettacolo ma anche documentazione, pensiero, dialogo, arte, filosofia.

In Alessandria i cinema chiudono o hanno chiuso in seguito alle trasformazioni socio-economiche di cui la città è uno specchio a tratti sconcertante. Il circolo Adelio Ferrero si propone di invertire una tendenza che vede oggi Alessandria lontano dagli scenari della cultura contemporanea, e si propone di riportare il dialogo attorno al cinema di qualità. Il circolo proporrà convegni, rassegne, incontri, letture, proiezioni, corsi di cinema.

L’esordio è avvenuto il 19 novembre con il convegno in Provincia sul cinema e la prima guerra mondiale, che ha visto la partecipazione di relatori da parte delle principali regioni della penisola. L’appuntamento fisso del circolo Ferrero sarà la rassegna che prenderà avvio il 26 novembre al Cineteatro Macallé di Castelceriolo, la cui prima proiezione sarà dedicata al film Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, alla presenza del regista. Tutti i film, così come quello di Mereu, avranno inizio alle 21,30. Il 26 novembre sarà possibile parlare con il regista anche attraverso un momento conviviale, un “apericena” o “apericinema” allestito nei locali del Macallé (costo, 5 euro).

Gli alessandrini hanno risposto bene alle prime iniziative, sia al convegno, sia alla cena di autofinanziamento che è stata realizzata un mese fa. Il Circolo nasce in piena autonomia, e non si è cercato il riscontro o l’appoggio di enti o sponsor, almeno in questa prima fase. Esso nasce come una sorta di esigenza “naturale” di persone diverse che a un certo punto della loro esperienza hanno sentito il bisogno di unirsi per riprendere il filo di un discorso culturale che ad Alessandria appare azzerato dall’incultura imperante. Il nostro sguardo è aperto sul mondo e intende superare steccati e convenzioni.

I primi film della rassegna sono prime visioni oppure riprese preziose, difficilmente visionabili al di fuori del circolo. Esordiamo con il film di Mereu perché è il caso eclatante di un bel film che ha avuto una distribuzione totalmente autonoma da parte del suo regista; una testimonianza importante da parte di un protagonista del cinema emergente. Seguiranno film importanti e significativi, ogni martedì del mese. I primi titoli sono: Bellas Mariposas, Miss Violence (premiato a Venezia), Biancaneves (affascinante riflessione sul cinema muto), Dead of night (classico horror degli anni quaranta), La quinta stagione (film europeo di grande suggestione sulla crisi del rapporto tra l’uomo e la natura), Momenti tristi (il classico di un grande regista inglese, Mike Leigh), Sobibor (capolavoro di Lanzhman, che sarà proiettato il 28 gennaio in concomitanza con il giorno della memoria). La rassegna si presenta di grande qualità, compatta, imprevedibile. Come secondo noi deve esserlo un bel circolo del cinema.

Crediamo che possa essere utile un dialogo, un’attenzione con gli iscritti. A tal proposito, l’apericena potrà essere un momento per conoscersi; inoltre, per chi non potesse raggiungere il cineteatro Macallé, abbiamo previsto un servizio di trasporto che parte da piazza Garibaldi (alcune auto si troveranno sotto l’orologio) e porterà gli associati al Macallé (per contatti basterà contattare la libreria Mondadori di Alessandria oppure inviare una mail al Circolo). Per quanto riguarda il futuro della nostra città, vogliamo sperare che la nostra sia soltanto la prima di una serie di iniziative incoraggianti.

Ci ispiriamo alla figura di Adelio Ferrero, critico cinematografico a cui, in tempi migliori di questi, fu dedicato un prestigioso premio; parliamo a buon diritto di tempi migliori, perché ultimamente qualcuno si è preso perfino la responsabilità di far sparire l’archivio Ferrero nascondendosi dietro scuse sconcertanti. Questa è una prova tangibile di insensibilità. I nostri figli sono costretti a vivere in un mondo così stupido e noi del circolo non possiamo rimanere indifferenti a questo degrado. Una cultura della disaffezione e della non appartenenza a fatto sì che oggi Alessandria sembri, semplicemente, un “non luogo”, un parcheggio polveroso di persone disamorate del presente.

Informeremo di continuo gli associati in merito alle nostre iniziative. La tessera per il circolo (che aderisce alla Fic, la Federazione Italiana Cineforum) costa 10 euro. Essa dà diritto a vedere ogni film con soli 4 euro. Chiunque può vedere i film senza tessera, spendendo 5 euro. Invitiamo gli alessandrini a uscire di casa e a venire a vedere i film del circolo.

Mereu partirà dalla Sardegna per venire ad Alessandria. Il suo film merita il calore della nostra città. I film sono stati scelti con grande cura, e sono molto interessanti. Potranno piacere o non piacere, ma saranno un’esperienza. Invitiamo tutti a vivere con noi quest’affascinante esperienza. Ci affiancano tanti amici, e il lavoro prezioso di altre associazioni ed enti di Alessandria, come “La voce della luna” e l’Istituto per la Storia della Resistenza, con cui intendiamo avere un dialogo aperto e mantenere una stimolante collaborazione.

Roberto Lasagna – Enzo Macrì
per il Circolo del Cinema “Adelio Ferrero”

Bellas Mariposas di Salvatore Mereu

 





Ci stanno togliendo il cinema?

 
Ci sono tante persone, come me, che – pur non ritenendosi specialiste del settore – da sempre si occupano di cinema. Perché siamo cresciuti con il cinema, perché abbiamo imparato presto a distinguere tra la spazzatura e le opere che avevano qualcosa di autentico da dirci, perché abbiamo maturato la nostra identità personale anche e soprattutto confrontandoci con le "storie degli altri" che il cinema ci metteva a disposizione. Perché il cinema per noi è sempre stato un terreno di esplorazione, di approfondimento, di confronto. È stato anche un terreno relazionale capace di aggregare le persone, di costruire un noi collettivo, assolutamente plurale ma anche assolutamente bene individuato: il noi collettivo dei cinefili, degli amanti del cinema. Ebbene, oggi, nonostante le kermesse mondiali, come la recente Mostra di Venezia, tra quelli come me c’è sempre più la sensazione diffusa che stiamo vivendo l’epoca della scomparsa del cinema. I segnali sono molti.

Per cominciare, dal nuovo anno non saranno più stampate e distribuite le pellicole e il cinema viaggerà solo più sul circuito digitale. La cosa non sarebbe di per sé allarmante, ma i costi di adeguamento per i nuovi standard di proiezione digitale sono decisamente molto elevati e questo metterà fuori gioco i piccoli cinema che sono finora sopravvissuti e darà ulteriore vantaggio alle multisale. Anche qui, la cosa non sarebbe di per sé preoccupante se non fosse che le multisale, il più delle volte, si sono rivelate più attente al profitto derivante dal cinema d’intrattenimento che alla promozione del cinema di qualità. Insomma, per noi spettatori amanti del cinema, ci saranno sempre più film di cui sentiremo parlare e che non riusciremo mai a vedere.

Va detto poi che, da qualche tempo, la distribuzione cinematografica si è razionalizzata intorno a criteri di puro marketing monopolistico, per cui solo un ristretto numero di prodotti cinematografici sono effettivamente distribuiti. Questo significa che non è più il pubblico a scegliere cosa vuol vedere, scegliendo entro un’offerta differenziata, ma è la distribuzione a scegliere cosa, di volta in volta, settimana per settimana, il pubblico può essere ammesso a vedere. Si tratta oltre a tutto di una programmazione uguale dappertutto, per cui è del tutto inutile cambiar cinema. Ogni settimana ci vuole il cartone per i bambini, il film demenziale per i giovanotti che hanno portato il cervello all’ammasso, il film spettacolare, magari in 3d per quelli che al cinema fanno «Oh!», la commedia leggera, l’horror splatter, la fantascienza piena di effetti speciali. Se poi c’è posto, magari, anche qualche film d’autore che sia riuscito a passare le maglie dell’ostracismo. In genere si tratta dei più chiacchierati e non certo dei più interessanti. Oltretutto, i tempi di mantenimento dei titoli in cartellone sono sempre più brevi, talvolta rapidissimi, specialmente per le opere che fanno poca cassetta. Fino a qualche tempo fa, chi avesse perso un film poteva sperare di rifarsi nella stagione estiva, in cui erano riproposte molte opere. Potevamo rifarci delle nostre negligenze. Oggi le stagioni estive non si fanno più, molti degli impianti per la proiezione estiva hanno già chiuso, o chiuderanno presto a causa del sopravvenire del digitale.

Le pecche della distribuzione non sono tuttavia finite. Nel mondo globalizzato, paradossalmente, è diventato sempre più difficile vedere i film di qualità delle cinematografie straniere.  Sono sempre più i film stranieri interessanti che non saranno mai distribuiti, oppure che saranno distribuiti in pochissime copie, in pochissimi cinema, in modo da rendere difficilissima la fruizione. Ciò è davvero grave, perché accade spesso che le cinematografie più interessanti siano proprio le cinematografie periferiche, il cinema ruspante che ha ancora qualcosa di autentico da dire, che è ancora immerso nelle cose, che non ha ancora preso la strada dell’evasione nei mondi onirici para-hollywoodiani. Questa situazione drammatica della distribuzione non potrà che ripercuotersi sui meccanismi della produzione cinematografica. Il cinema d’autore verrà sempre più messo alle corde dall’industria dell’intrattenimento. I giovani autori che abbiano qualcosa di personale da dire troveranno le porte sempre più sbarrate da meccanismi produttivi e distributivi per i quali la qualità è sempre più un criterio del tutto secondario. Oggi che il cinema potrebbe essere, letteralmente, alla portata di tutti rischia di non essere più effettivamente di nessuno.

Il cinema sta diventando sempre più evanescente anche come presenza fisica nelle nostre città. Il cinema che è sempre stato un fenomeno urbano per eccellenza, sta perdendo il suo legame con la vita cittadina, proprio in termini di localizzazione delle sale da proiezione. I cinema si stanno allontanando sempre più dai centri cittadini, stanno diventando sempre più mega insediamenti periferici, in capannoni desolati, nelle «aree tristi» lungo le strade statali. Non puoi più andare al cinema se non hai l’auto e se non sei disposto a fare un bel po’ di chilometri.  I cinema nel centro cittadino erano una dimensione importante, un momento rilevante della vita sociale che forse non abbiamo saputo apprezzare appieno. Di certe cose si capisce appieno il valore solo quando si perdono. Da qualche tempo a questa parte, i più attenti lo avranno notato, in giro non ci sono neanche più i manifesti dei film in programmazione. Anche i manifesti costituiscono un costo da tagliare. Certo c’è Internet, ma i manifesti erano un’altra cosa. Con i manifesti diffusi in giro, era il cinema che ti veniva a cercare.

Anche la cultura cinematografica, più in generale, risente pesantemente di questa situazione. La critica cinematografica (quella che si legge sui giornali, o quella che si trova su Internet) è sempre più asservita alla distribuzione. È difficilissimo oggi trovare un critico che faccia una stroncatura argomentata. Tutti i film sono belli, tutti sono interessanti, magari per i pettegolezzi sugli attori, sui registi, oppure sul contenuto della storia. Capita spesso di leggere critici che non hanno capito, alla lettera, il film di cui stanno scrivendo, oppure che si fermano agli aspetti più superficiali. Certuni non sembrano, ahimè, neanche in grado di raccontare la trama. Insomma, oggi la funzione civile della critica, che sarebbe quella di accrescere la consapevolezza del pubblico, di contribuire ad alzare la qualità delle opere, di dibattere le questioni estetiche e culturali sollevate dalle opere stesse, sta venendo drammaticamente meno. Il critico è sempre più un pennivendolo che scrive per un tot a cartella, impegnandosi a parlare bene di tutti, a trovare sempre la cosa carina e curiosa da segnalare, anche per i prodotti più ignobili.

Il cinema, oltretutto, nonostante abbia saputo guadagnarsi un effettivo posto consistente nella cultura del Novecento, continua a restare fuori dai programmi scolastici, fuori dalle sale dorate della cultura, sempre più confinato come arte minore della società di massa. Certo, in questo quadro anche il pubblico ha le sue responsabilità. Un pubblico dai gusti troppo facili, suscettibili di essere corrotti con prodotti di terz’ordine. Un pubblico casereccio che non ha neppure più voglia di uscire di casa. Un pubblico spilorcio che preferisce vedere quel che passa la tv piuttosto che comperare il biglietto. Un pubblico che ha sempre meno voglia di pensare, di coinvolgersi nelle provocazioni culturali che solo il cinema è in grado di dare. Un pubblico anche maleducato, che va al cinema per fare gazzarra, per sghignazzare con gli amici e non certo per pensare ai contenuti del film. Qui dovremmo forse cercare di assumerci collettivamente qualche responsabilità. Era comodo quando era il cinema che ci veniva a cercare. Ora sembra che siamo noi che dobbiamo andare a cercare il cinema, prima che sia troppo tardi.

Alla ridotta qualità della critica e all’annacquamento della cultura cinematografica, possiamo aggiungere che sono in pericolo anche la memoria e storia del cinema stesso. Pellicole distrutte, mancanza di fondi per il restauro e per la conservazione. Scarsa attenzione alla ricerca storica. Chi volesse oggi fare una retrospettiva di un qualche autore importante sarebbe costretto a giostrarsi tra innumerevoli difficoltà relative al reperimento e alla distribuzione delle pellicole. Sarebbe costretto a giostrarsi tra cassette, CD, DVD, pellicole o formati digitali vari. Dovrebbe trovare qualche volenteroso conservatore, dovrebbe essere disposto pagare costi consistenti. Molte opere fondamentali della storia del cinema sono di fatto precluse per uno spettatore comune. Spesso ci si deve rassegnare ad attendere che trasmettano il film in TV, magari a orari impossibili.

Così il cinema per noi diventerà sempre più un elenco di film che vorremmo vedere e che probabilmente non riusciremo mai a vedere. Il solo fatto che questi film esistono, da qualche parte, e che noi non li abbiamo mai visti, e che noi non potremo mai vederli, ciò costituisce una perdita, una privazione, un vuoto che possiamo anche considerare come un diritto violato, un’ingiustizia. Un patrimonio comune che dovremmo custodire gelosamente, mettere a disposizione di tutti, tramandare alle generazioni future è oggi collocato in un limbo, abbandonato alla casualità, privatizzato, comunque reso difficilmente disponibile. No, questa situazione non è certamente frutto di un complotto. Ma è un dato di fatto che poco per volta, impercettibilmente, ci stanno togliendo il cinema. Il cinema che ci faranno vedere sarà sempre peggiore, sempre più insignificante dal punto di vista culturale. Un cinema che addormenta la mente invece di svegliarla, un cinema che non fa discutere (perché su certi film che vanno per la maggiore non c’è proprio nulla da dire, si guardano e basta, sorseggiando coca-cola e mangiando popcorn che puzza di fritto).

Ci si può rassegnare, oppure si può cercare di reagire in qualche modo. Scrivo queste riflessioni perché nella nostra città si è formato, con la mia totale adesione e partecipazione, un gruppo promotore che sta esaminando la possibilità di costituire un «Circolo del cinema». Forse sarebbe meglio dire «ricostituire» sulla scia di un’illustre tradizione ben radicata nella nostra città. Le difficoltà e gli ostacoli sono molti. Il primo passo è tuttavia quello di verificare se il senso di perdita che ho cercato di esplicitare è diffuso, se c’è davvero un bisogno sentito di cinema, se è ancora possibile, anche in una città come la nostra, aggregarsi intorno alle "storie degli altri" prodotte dal cinema. Se ci stanno togliendo il cinema, come pubblico associato e organizzato, forse possiamo cercare di far qualcosa per riappropriarci di quel che moralmente senz’altro ci appartiene.

Giuseppe Rinaldi 

13/09/2013

 

Manifesto del “Circolo del cinema Adelio Ferrero” a cura del Comitato promotore

 
Non era una boiata pazzesca. [*] Immaginare l’oltre. Discutere di visioni condivise, di sguardi sul mondo, di punti di vista non facilmente assimilabili. Un circolo del cinema è innanzitutto quanto richiede il suo nome, cioè un circolo, un luogo in cui l’interpretazione del mondo che il film offre, circola, si fa strada tra i punti di vista, le opinioni, i disappunti degli aderenti. Un’associazione cinematografica per amanti del cinema non è un’isola felice, una sorgente di utopia, ma rischia di apparire tale oggi, nel momento in cui il cinema scompare, diviene pallida memoria di autori leggendari e sempre più occultati, di visioni incandescenti per fortuna non ancora rimosse in chi ha più di quarant’anni e si accorge che le sale sono chiuse, il dibattito critico è emarginato e ininfluente, mentre tutt’intorno sembra pullulare l’adesione supina alle regole del consenso acritico, voluto e canalizzato mediante i soliti mezzi di comunicazione. Occorre spezzare una lancia - e, perché no, magari (ri)avviare anche una corazzata - in favore di quanto il cinema ha rappresentato (e che in paesi meno beoti del nostro rappresenta sempre) in termini di comunicazione, riflessione, elaborazione di spunti critici, ma soprattutto occorre poter guardare a come il cinema può accogliere e interpretare il futuro, affinché i giovani nascano e crescano in un mondo non scritto da altri, ma consapevole e libero.

Pedinamento della verità. Una prospettiva simile deve essere ambiziosa e guardare sia al passato che al presente, ai film da noi invisibili per motivi distributivi e a quelle cinematografie che hanno ancora un rapporto di verità con la vita. È naturale che del cinema, in un’Italia sfatta e cialtrona, siano rimasti soprattutto degli aggettivi. “Quello spot è felliniano”. “Quella presentatrice somiglia alla Bardot perché non mette pellicce di animali”. La memoria attuale del cinema ha qualcosa di circense, e non sarà un caso che lo spettacolo del cinema nasca come lanterna magica, come gioco di luce e di ombre. Ma il cinema, oltre che uno sguardo mirabolante, è essenzialmente uno sguardo sul mondo che mette in moto il cambiamento. Nei momenti più alti della sua storia, il cinema ha anticipato i grandi eventi, ha accolto il reale dandone chiavi di accesso, ed è anche grazie ad alcuni film che ci siamo potuti costruire un’immagine, non statica, ma dinamica e in un certo senso ‘cinematografica’ - nei casi migliori problematica - della storia. La prima guerra mondiale è stata per molti spettatori “Gli orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick, l’America degli anni Settanta le immagini splendide di “Nashville” di Robert Altman. Anche grazie alle rappresentazioni di quei registi abbiamo potuto elaborare ipotesi critiche, capire quando e come nella vita ciò che viviamo è una grande illusione e quando è arrivato il momento di dire no, di cambiare pagina. Grazie a quei film, qualcuno di noi ha potuto alimentare il proprio “furore etico”, rilanciando la scommessa di una maggiore consapevolezza, quando perfino le scuole, per definizione la culla della formazione culturale, abdicavano chiaramente al loro ruolo.

Il futuro ha l’oro in bocca. Nell’oggi in cui conta soprattutto l’immagine, l’apparenza, un circolo del cinema che s’ispiri ad Adelio Ferrero intende scommettere su un futuro diverso da quello che vediamo ad Alessandria. Persone che credano in loro stesse, che abbiano voglia di confrontarsi e che soprattutto abbiano la possibilità di farlo, di sperimentare luoghi di riflessione anche grazie alla visione di un film che possa essere per loro fonte di animosità, condivisione, riprovazione, disincanto, ma soprattutto continua scoperta dell’altro. Persone che credano nella visione per guardarsi attorno e guardarsi dentro. Perché il nostro mondo interiore è fatto d’immagini, profondissime e forse per fortuna ancora tanto diverse dalle troppe e omologanti che ci circondano. Il Circolo del cinema “Adelio Ferrero” cercherà di alzare la testa, di guardare cosa succede nel mondo, senza preclusioni. Non solo visioni, ma anche incontri, dibattiti, perché il futuro si costruisce con il pensiero e con la possibilità di esprimerlo. Niente di meglio che un buon film per rimettersi al centro della propria vita. Oggi ancor di più di ieri.


[*] Questo manifesto è uno dei primi prodotti del Comitato promotore che sta esaminando la possibilità di costituire in Alessandria un Circolo del cinema intitolato ad Adelio Ferrero. È stato presentato in una prima riunione il 25/09/2013.

 

Linee programmatiche del Circolo del Cinema "Adelio Ferrero" di Alessandria


Il Circolo del Cinema "Adelio Ferrero" di Alessandria è una libera associazione culturale, senza alcun scopo di lucro, che si adopera per la promozione della cultura cinematografica, in tutte le sue forme e manifestazioni, principalmente a livello locale ma con uno sguardo non localistico rivolto al livello nazionale e internazionale.

A tal fine, il Circolo promuoverà la fruizione pubblica di film di rilievo culturale, con particolare riguardo a: 1) film recenti che abbiano avuto limitata circolazione, 2) film di giovani registi della cinematografia italiana, 3) retrospettive legate ai capolavori della storia del cinema, 4) rassegne di cinematografie straniere, per ambiti tematici e/o per aree territoriali. A tal fine, compatibilmente con i problemi di distribuzione dei film, il Circolo provvederà, con la partecipazione più ampia possibile degli aderenti, all’individuazione delle opere, alla costruzione delle rassegne e alla redazione dei relativi materiali di documentazione per il pubblico. Verrà, ove possibile, rivolta particolare attenzione alla visione di pellicole in lingua originale sottotitolate, in modo da poter usufruire di una maggior integrità dell’opera.

Il Circolo promuoverà inoltre iniziative di formazione e/o approfondimento relative a temi di cultura cinematografica come, ad esempio, momenti della storia del cinema, l’analisi del film, la critica cinematografica, il rapporto tra il cinema e le altre arti, il rapporto tra il cinema e la società. Il Circolo intende promuovere incontri (nella forma di dibattiti, conferenze, seminari di studio) con operatori appartenenti a vario titolo al mondo del cinema come registi, attori, produttori, critici ed esperti. Gli eventuali prodotti testuali relativi queste iniziative potranno essere divulgati al pubblico attraverso le forme più adeguate.

Il Circolo è aperto alla collaborazione con le altre associazioni culturali del territorio che siano disponibili a progettare iniziative o percorsi comuni. È aperto alla collaborazione e al servizio nei confronti degli Enti Locali e di tutte le altre istituzioni locali territoriali. È aperto in modo particolare nei confronti dei giovani, degli insegnanti, delle istituzioni scolastiche e di tutti coloro che operano nel campo della formazione e della promozione sociale.

Consapevole della rilevanza culturale dello sviluppo di un sano tessuto relazionale a livello locale, il Circolo promuoverà occasioni d’incontro tra i partecipanti che siano finalizzate alla reciproca conoscenza, allo scambio di opinioni, al perfezionamento delle attività programmate, all’arricchimento della vita associativa e, non ultimo, allo sviluppo di una convivialità intelligente.

Il Circolo s’ispira alla figura dell’alessandrino Adelio Ferrero che è stato un maestro di curiosità culturale, di apertura mentale e di rigore intellettuale e morale. Secondo questa ispirazione, il Circolo intende essere un’associazione pluralistica, autenticamente aperta alla partecipazione, dalla struttura interna rigorosamente democratica. Un’associazione che non intende privilegiare alcuna particolare opzione ideologica o culturale, che crede nel dibattito franco e aperto, nell’approfondimento e, soprattutto, nell’impegno militante per la promozione della cultura.

A cura del Comitato Promotore  

Alessandria 9/10/2013