"La quinta stagione" di P. Brosens e J. Woodworth (recensione)


 
Ecco il dramma della normalità implodente, della reiterazione di abitudini e pensieri, nella rappresentazione plumbea e sorprendente di La quinta stagione. Opera interessante, di una narratività sinfonica inconsueta, che nel figurativo vede il comporsi e il rifluire della tensione espressiva, di una modulazione del vedere che è mimesi del sentire vagheggiante e oscuro del villaggio. La scena riprodotta dal film belga è luogo di un malessere al contempo arcano e contemporaneo, isola-non-isola calata dentro il reale e la favola ma altera fuoriuscita da una rappresentazione mainstream. Immagini come quadri in un fluire denso, ipnotizzante, dove l’en plein air rispecchia la dominante figurativa che contribuisce a modellare il senso della rappresentazione, la sua compiutezza estetica. In un paese in cui l’attesa diviene perpetua, dove all’inverno non succede la primavera, ogni pallida incrinatura di un reale ordinario si fa metafora, segno dissonante di un disegno altrimenti tutto previsto. L’imprevedibilità è ricercata nella figuratività narrativa cadenzata dall’atonalità dei tempi e delle attese, nel chiasmo di una tensione emotivo-espressiva che si rapprende nell’ambiguità delle immagini. Immagini-simbolo, o, più sovente, immagini-enigma; come la ragazza appesa all’albero sospesa su di un mondo dove non è più possibile sognare, come il quadro in apertura con il gallo sul tavolo in attesa di essere forse giustiziato, perché la carestia e la fine dei tempi non permette ulteriori attese. Il nuovo film di Peter Brosens e Jessica Woodworth è una sinfonia tragica in cui il ricomparire del “destino” coincide con la messa in atto e la riproposizione irretita di temi arcani, che riportano l’uomo alla superstizione, all’ignoranza. In un paese non identificato, in un tempo prossimo, le mucche hanno smesso di produrre il latte, le galline non fanno più le uova e ora anche la primavera non sopraggiunge. In questo lungo inverno da incubo si cerca un capro espiatorio, e si fa presto a trovarlo. Ritornano i riti umani in onore di un non ben identificato Dio, dopo che Dio è stato ucciso dalle abitudini. Gli alberi spettrali simboleggiano ciò che è stato, e palesano la malattia del nostro rapporto malato con la natura. Nevica quando dovrebbero rispuntare i fiori e dinanzi a questi segni sconcertanti non sappiamo come fare. Il film, filosofico e suggestivo, riecheggia motivi del cinema europeo contemporaneo, dai Dardenne a Von Trier. La tematica arcana si lega all’oggi, alla domanda degli ecologisti dinanzi alla scomparsa delle specie animali e al rarefarsi di comportamenti che esprimano una visione olistica non episodica. La fantascienza è la chiave allegorica che conduce il racconto al tema dell’apocalisse. Dal Belgio un film che invita a riflettere, a interrogarsi sul mistero della natura. La grande bellezza che è anche un tema filosofico, un rievocare la potenza suggestiva del sentimento estetico, del gusto come criterio (s)oggettivo del conoscere. La grande bellezza ecologico-figurativa come tensione partecipativa al futuro, iconico, figurativo, esistenziale, ecologico, del nostro sguardo sul mondo. La fantascienza cinematografica ha rappresentato, almeno dagli anni Sessanta di Hallucination (Losey) e Il mondo nuovo (Godard) - per citare soltanto due momenti illustri - il tramite espressivo dell’utopia capovolta. Un capovolgimento che ritroviamo in questo film belga che ricolloca l’individuo al centro di una scena “più grande di lui”, dentro quel mondo in balìa dei tempi in cui non siamo soltanto cittadini ma transfughi, vittime irreggimentate di una socialità sclerotizzata da tetti e leggi.
 
Roberto Lasagna
(da Duellanti, ottobre 2013)

 

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