Se n’è andata la più grande
di Nuccio Lodato
«La
faccia meravigliosa della Moreau, che come la Garbo esprime talmente tanto di per sé, per il
solo fatto d’esser lì, da dare involontariamente corpo e peso
alle situazioni più vuote»
Alberto
Arbasino, Ritratti italiani
Nella sua sterminata
filmografia, però, intendiamoci bene, non abbondano certo le “situazioni più
vuote” cui si riferisce lo scrittore vogherese, alludendo esplicitamente alla Notte
di Antonioni, film poco amato anche dalla sua protagonista femminile (ci si
tornerà).
Pur se figlia del
fondatore-proprietario del celebre ristorante “La Cloche d’Or” di Pigalle, a
pochi passi dal Moulin Rouge e non distante dall’Opera (tra i frequentatori di
allora Kessel, Cocteau, la Piaf con Cerdan), sceglie un’altra strada: recitare.
Una prima raffica di piccole parti in titoli di seconda serie, in genere
tratteggiando altrettanto piccole poco di buono che i lineamenti insieme duri e
sensuali già le facilitavano anche troppo (ma era stata anche l’aiutante di
devota abnegazione del celebre medico-filantropo in È mezzanotte, dotto
Schweitzer di Haguet, 1952...). Già in teatro gli esordi erano stati in
parti da giovane prostituta, nei Sotterranei del Vaticano e in un Otello:
il padre la caccia di casa dopo aver visto su di un giornale, ignaro di tutto,
la sua foto in scena nell’esordio col pur irreprensibile Un mese in campagna
da Turgenev, ma in compenso nello Shakespeare la vede recitare Welles, che
un decennio dopo se ne ricorderà eccome! Si trova però poi ad esplodere,
tralasciata la scena per eccesso di domanda dai sets, con la grandezza dell’opera
(«uno dei migliori film francesi mai realizzati» in cui «è una donna fatale stilizzata
ma efficace» [Mereghetti]) grazie a Grisbi di Becker. Appena dopo, senza
perdere colpi «fa la cattiva» [id.] ancora a fianco di Gabin ne I giganti di
Grangier, ripetendosi contemporaneamente nella prima Regina Margot,
quella di Dréville (verrà oscurata qui, una volta tanto, quarant’anni dopo
dalla seconda, la Adjani diretta da Chéreau: nuda l’una, nuda l’altra, sequenza
quasi istantanea nel ‘54 e prolungata assai nel ‘94).
Appena dopo - siamo tra il ‘57 e il ’58 - l’affermazione
completa e definitiva, che le conferisce a trent’anni un’allure e una
percezione di grandezza destinate a farsi irreversibili. La determinano nel
giro di pochi mesi le mogli adultere cucitele addosso, l’una via l’altra, dal
suo autentico pigmalione/innamorato originario, il grande e troppo
misconosciuto Louis Malle, allora esordiente, nel formidabile uno-due di Ascensore
per il patibolo e di Les amants. Il disperato vagare notturno per
Parigi accompagnato dalla tromba di Miles Davis nel primo resterà scolpito e
irripetibilmente ripetuto infinite volte ormai anche in rete (perfino la Rai se
n’è accorta, non sbagliando una volta tanto la scelta della sequenza mortuaria
per i tg!). La sua personale carica erotica nel pur rigorosissimo, quasi algido
secondo («la prima notte d’amore al cinema», ne scriverà, ormai sul punto di
abbandonare le vesti di critico per la regìa, Truffaut) darà luogo a infinite
polemiche e levate di scudi censorie, come allora usava, soprattutto con la
presentazione a Venezia e il relativo Leone d’Argento (il Patriarca marciano è
ancora Angelo Giuseppe Roncalli, che diverrà Giovanni XXIII sette settimane
dopo: nel frattempo è entrata in vigore la legge Merlin, e poco più avanti la
danzatrice turca Nanà improvviserà quello spogliarello al Rugantino di cui resterà
eco ne La dolce vita...).
Le maglie di un’attività
intensissima, anche se sempre qualitativamente sorvegliata -quattro, cinque
film l’anno in media nei Sessanta- rendono difficile il seguirla passo passo. È
capace di incarnare, a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, con Ritt la
partigiana ex-collaborazionista di Jovanka e le altre (con amicizia per
la Mangano e i bambini De Laurentiis, per i quali resterà sempre “la zia Gianna”)
e la terribile Merteuil delle dimenticabili Relazioni pericolose di Vadim;
la decisa suor Maria dell’Incarnazione dei misconosciuti Dialoghi delle
Carmelitane di Agostini col padre Bruckberger e l’ennesima moglie ricca
problematizzata nel Moderato cantabile del poi grande Peter Brook (qui
però è importante soprattutto il rapporto con il romanzo della Duras: tra le
due nascerà una monumentale amicizia).
Ma sarà proprio Truffaut
a darle la collocazione definitiva. Se in pochi ricordano la breve apparizione
ne I quattrocento colpi, nel ‘63 il capofila della nouvelle vague costruirà,
su di lei e sul personaggio affidatole di Kate, uno dei film insieme più
perfetti ed eversivi dell’intera storia del cinema: Jules e Jim (i due
si ritroveranno un’unica volta, dopo la rinuncia truffautiana a dirigerla, a
vantaggio del suo primo effimero marito Jean-Louis Richard, nel delizioso Mata
Hari del ‘64, nell’altrettanto perfetto ma volutamente in “minore” La
sposa in nero, ‘68). Sono gli anni del suo tuffo generoso ma non proprio a
capofitto, considerato che l’amatissimo Malle sempre se ne stette -o fu
tenuto?- un po’ a distanza, nella nuova ondata transalpina: con Godard, Demy e
Ophuls figlio (il cui dimenticato Buccia di banana anticipa per certi
versi proprio il crudele quanto beffardo Truffaut da Cornwell-Irish de La
sposa). Ma anche quelli del contatto col grande cinema dei maestri
apolidi esiliati tra America ed Europa: Welles (Il processo, ‘62; la
Doll di Falstaff, ‘66; soprattutto la protagonista di Storia
immortale, ‘68); Losey (Eva, ‘62; Mr Klein, ‘76; La Truite,
‘82); Buňuel col formidabile Diario di una cameriera, ‘64. Poi la love
story, tra le tante che adesso i quotidiani non hanno trascurato di rammentare
con pignoleria, col ...non violentemente etero Tony Richardson, che per lei
pianta in asso Vanessa Redgrave (!!) e le loro due figlie, ma non le porta
cinematograficamente fortuna (... e il diavolo ha riso, ‘66 con Il
marinaio del “Gibilterra”, ‘67 non finiranno tra i suoi passaggi migliori).
E’ ormai abbastanza arrivata da non negarsi a qualche megaproduzione
internazionale non ancora designata come blockbuster: ma si era divertita
clamorosamente con la Bardot, dietro la
mdp tornato per lei un’ultima volta Malle dopo il Fuoco fatuo del ‘63,
in Viva Maria!. Incontrerà ancora, tutti sul finire di carriera, Renoir
(Il piccolo teatro, ‘69), Kazan (Gli ultimi fuochi, ‘76),
Anghelopulos (Il passo sospeso della cicogna, ‘91: ma nel 2007, nel suo
spezzone celebrativo di Chacun son cinéma per i sessant’anni di Cannes,
il maestro greco inserirà un suo brano da La notte...) e l’assai più
giovane Roberto Andò (la consorte pscicanalista di Lampedusa nel Manoscritto
del Principe, 2000). Antonioni, col quale si era incontrata infelicemente
da protagonista della milanese Notte nel ‘61, lo risfiora solo di
striscio trentaquattro anni dopo dando vita alla cornice di Al di là delle
nuvole, dove però a filmarla in dialogo con Malkovich e Mastroianni sarà
direttamente Wim Wenders. Intervenendo in anni più recenti, cercherà di
stemperare il giudizio negativo sul maestro ferrarese maturato in quell’occasione,
in realtà di fatto confermandolo (merita di essere ascoltata la registrazione
che di quell’uscita, 2007, realizzò all’epoca Mario Serenellini: https://www.youtube.com/watch?v=PLLsIWhxnPs.
«Nella stanza le donne vanno e vengono / parlando di Michelangelo» citava
maliziosamente Visconti al tempo de Il lavoro, rifacendosi al Love
Song di T.S. Eliot...).
Ci sarà ancora spazio
per... una sessantina di film dopo, a diverso e spesso laterale livello di
coinvolgimento: anche con Wenders, il non riuscito Fino alla fine del mondo,
1991; con Ozon, per lo scabro e scabroso Le temps qui reste, 2005; con
Oliveira, il per entrambi conclusivo Gebo e l’ombra, 2012. Lasciano nell’insieme
il tempo che trovano, prove terminali di un’immensa stagione alle spalle, come
per quasi tutti i grandi artisti. Né vanno francamente oltre neppure le sue due
regìe, Scene di un’’amicizia tra donne (1976, in cui si dirige anche) e L’adolescente
(1979, dove ai suoi ordini è un altro monumento al tramonto, Simone
Signoret: così come il terzo addirittura Lillian Gish, che intervisterà nell’83!).
Però il suo autentico, irraggiunto e
irraggiungibile zenit espressivo, attoriale e canoro -canto del cigno
integrale: artistico, estetico, umano, emotivo, sensuale e chi più vuole più
aggiunga- lo aveva già raggiunto l’anno prima con la Lysiane di Querelle de
Brest da Gênet, che Fassbinder aveva appena fatto in tempo a concludere
prima di morire trentasettenne per overdose, con clamorosa e contrastata
presentazione postuma a Venezia.
***
La vita non mi è stata
avara di doni, tutt’altro. Certamente uno dei più significativi (i privati li
tengo per me, e sono i maggiori) è stato l’aver avuto il privilegio, non comune
per chi non bazzichi abitualmente la Francia (ma in fondo anche per chi l’abbia
fatto: poco teatro, e saltuario per lei, dopo gli esordi assoluti che però
erano già Comédie Française e TNP con Vilar!) di aver veduto recitare dal vivo “la
Moreau”. Ne Le recit de la servante Zerline per la regìa di Klaus
Michael Grüber, un altro che ha salutato troppo presto. All’ora da poco
inaugurato Piccolo Teatro Studio, non ancora “Melato”, di Milano: un
indimenticabile attacco d’estate di trent’anni fa giusti, la domenica 21 giugno
1987.
Lo spettacolo, che aveva
già un anno di vita e avrebbe resistito ancora per un altro, con duplici lunghe
tournées germaniche e francesi, altro non era che il racconto “impossibile”, in
forma non di lettura ma di messinscena vera e propria, che costituisce il
quinto degli undici concorrenti a formare il romanzo di Hermann Broch Gli
incolpevoli (Adelphi l’ha giustamente riproposto in un volumetto autonomo
lo scorso anno: il libro, dopo la prima traduzione Einaudi del ‘63 e la
ristampa dell’81, è oggi incredibilmente fuori mercato in Italia!)
Un monologo di
camerierina intenta stira, col ferro impugnato, in piedi all’apposito tavolo,
grembiule nero e crestina candida non dissimili da quelli del Diario di una
cameriera, ma somministrante un testo, memore di Mozart-Da Ponte e della
tradizione mitica di don Giovanni e donna Elvira, ma in realtà riflettente
sulla mostruosità del secolo scorso, di rilevanza fondamentale e fondante. (E
poi ritrovarsela col fiato sospeso a cena nel tavolo accanto di un ristorante
del dopo teatro, tutta in bianco con decolté valorizzante l’abbronzatura, e il
cameriere che incredibilmente ne raccoglieva le ordinazioni chiamandola “signora
Moreau”...). Non sono feticista né passatista: ma il giorno lontano in cui
inavvertitamente una signora delle pulizie ha distrutto il biglietto di quel
pomeriggio, debitamente incorniciato insieme a quello del concerto - primo in teatro nella
sua carriera -
di de Andrè ad Alessandria 1992, ho scoperto per un fugace attimo come persino
nella mia remissiva indole potesse albergare al fondo qualcosa di fuggevolmente
violento.
***
In definitiva, insomma,
fino a che qualcuno non dimostrerà in maniera credibile il contrario, Jeanne
Moreau è stata la più grande e significativa attrice di cinema nella seconda
metà del secolo ormai scorso. Nel nostro continente, senza un attimo di
esitazione ad affermarlo. Se non ci mancasse la conoscenza diretta di una buona
metà abbondante della produzione del globo, si sarebbe tentati di aggiungere:
nel mondo. Sarà sempre vero che il cinema sia “la morte al lavoro”, come
sosteneva inattaccabilmente Cocteau: ma nel frattempo darà un determinante
contributo, almeno finché i supporti riproduttivi via via più durevoli
resisteranno (la celluloide, il vhs, la digitalizzazione, il dvd, il
blu-ray...) a rendere, se non eterna come meriterebbe, almeno a sua volta
resiliente al Tempo nella Memoria anche l’immensa Jeanne. Riportando pure l’ipnosi
della sua voce esile ma intonata, tenera ma graffiante, nelle rare ma a loro
volta non dimenticabili canzoni interpretate, a cominciare naturalmente da Le
tourbillon che Kate intona in Jules e Jim.